9/11/2006

Diritto penale e politiche della memoria in Argentina

Diritto penale e politiche della memoria in Argentina
Alcune riflessioni in margine alla dichiarazione d’incostituzionalità degli indulti in favore dell’ex dittatore Videla e di due ex ministri del suo governo

Pablo D. Eiroa (Università di Firenze)
eiroapablo@yahoo.it



Tra il 4 e il 5 settembre dell’anno in corso, il giudice federale argentino Norberto Oyarbide dichiarò l’incostituzionalità degli indulti decretati dall’ex presidente Carlos S. Menem in favore dell’ex ministro dell’economia dell’ultimo regime dittatoriale, José Alfredo Martínez de Hoz, dell’ex ministro dell’interno dello stesso regime, Albano Harguindeguy, e dell’ex presidente de facto Jorge Rafael Videla. Questi tre ex funzionari di governo erano stati processati nel 1985 per essere ritenuti responsabili della detenzione illegittima di due imprenditori argentini, avvenuta nel 1976 e durata all’incirca 5 mesi, con lo scopo di costringerli a concludere un accordo commerciale d’esportazione con gruppi economici di Hong Kong. Apparentemente, la conclusione di questo accordo tra gli imprenditori argentini ed i gruppi stranieri avrebbe garantito all’allora ministro dell’economia la concessione di crediti miliardari da parte degli asiatici. Un decreto di indulto firmato da Menem nel 1990 impedì la continuazione della persecuzione penale nei confronti degli accusati e, di conseguenza, provocò la loro assoluzione. La recente decisione che dichiara l’incostituzionalità del beneficio concesso agli ex funzionari, e quindi consente la riapertura del processo, è stata pronunciata in seguito all’istanza promossa da un’associazione civile di difesa dei diritti umani e dalla Segretaria per i diritti umani del governo nazionale.

La decisione in commento rappresenta la settima dichiarazione di incostituzionalità degli indulti, dei quali beneficiarono i militari dell’ultima dittatura, dopo che la Corte Suprema argentina, nel giugno 2005, dichiarò l’incostituzionalità delle leggi d’amnistia note come “ubbidienza dovuta” e “punto finale”. Tutte queste decisioni possono essere ricondotte, almeno, a tre motivazioni: a) i trattati internazionali di diritto umanitario che, a partire dalla riforma costituzionale del 1994, fanno parte della Costituzione argentina (art. 75, comma 22), non consentono allo Stato di prendere misure finalizzate a impedire la persecuzione penale dei crimini di lesa umanità; b) secondo lo stato attuale del diritto internazionale, come ribadito più volte dalla Corte Interamericana di diritti umani, i crimini di lesa umanità sono imprescrittibili; c) ogni amnistia è orientata all’oblio di gravi violazioni dei diritti umani, e quindi si oppone alle disposizioni della Convenzione Americana di diritti umani e al Patto sui diritti civili e politici che, come abbiamo detto prima, fanno parte della Costituzione argentina sin dal 1994.

Dal punto di vista del penalista, la recente decisione del giudice Oyarbide, così come le altre decisioni accennate che, al giorno d’oggi, hanno consentito la riapertura di processi penali nei confronti di più di 200 persone tra ufficiali ritirati, ex membri delle forze di sicurezza e civili legati all’ultimo regime dittatoriale, solleva molti problemi. Ci si chiede, ad esempio, se il riavvio o la prosecuzione di tutti questi processi non comporti gravi violazioni al principio di non retroattività della legge penale a danno dell’accusato, al principio del giudice naturale, alla proibizione della doppia incriminazione, al principio del giudicato, alla certezza insomma delle sentenze e, più in generale, del diritto. Naturalmente, provare a rispondere a queste questioni richiederebbe un’analisi molto più approfondita di quella consentita, anche per ragioni di spazio, in questa sede. E’ quindi un’altra riflessione che vogliamo proporre: essa riguarda il ruolo dei tribunali e del diritto penale in generale come strumenti di ricostruzione della storia sulla quale consolidare una memoria collettiva.
Sin dall’inizio della sua gestione, il Presidente Kirchner ha fatto della questione dei diritti umani, in particolar modo della loro violazione durante l’ultima dittatura, un tema centrale e ricorrente dei suoi discorsi pronunciati in atti pubblici. Più volte sostenne che l’impunità dei responsabili dei crimini dell’ultimo regime era inammissibile. Ma il 24 marzo di quest’anno, in occasione di un atto commemorativo dei trenta anni dall’ultimo colpo militare, il Presidente affermò inoltre che era da lamentare anche l’impunità dei responsabili del modello economico implementato dal governo dittatoriale, indicando l’ex ministro dell’economia Martínez de Hoz come il “cervello” di tale modello. Un modello economico che, secondo il Presidente, era talmente contrario agli interessi popolari e nazionali che fu necessario un regime dittatoriale per imporlo (1). In perfetta sintonia con questa opinione del Presidente, il Segretario per i diritti umani, promotore della richiesta di incostituzionalità dell’indulto in favore di Martínez de Hoz, dichiarò, dopo la sentenza del giudice Oyarbide, che finora non erano stati indagati né processati gli intellettuali che promossero il colpo di stato, né gli altri civili che hanno beneficiato del regime. L’economia neoliberale che soggiaceva all’iniziativa golpista, concluse il Segretario per i diritti umani, è stata responsabile del genocidio (2).
Dal governo, dunque, sembra scendere un messaggio che non solo condanna (con ragione) i crimini atroci commessi durante il regime dittatoriale, ma anche criminalizza il modello economico implementato durante tale fase storica. O meglio: questa condanna delle violazioni sistematiche ai diritti fondamentali durante la dittatura sembra avvicinarsi pericolosamente a una versione dei fatti che presenta alla finalità di implementare un modello economico, ricollegabile proprio alle idee politiche dei partiti d’opposizione al governo attuale, e cioè quelli di centro-destra, come motivo essenziale del colpo di stato. Non vogliamo qui contestare la veridicità o meno di questa tesi, ma sembra preoccupante che le cause dell’ultimo regime dittatoriale argentino, durato più di sette anni, siano praticamente ricondotte solo a tale tesi, trascurandosi, ad esempio: l’ampio appoggio popolare che avrebbe avuto almeno inizialmente il regime stesso a causa della grande instabilità socio-politica che ha conosciuto il paese negli anni precedenti il colpo; le numerose azioni di tipo terroristico compiute in quella stessa fase storica da organizzazioni di sinistra e di destra; la costituzione e l’attuazione in quel drammatico momento anche di un organismo dello Stato di tipo terroristico come la “triple A” (Alleanza anti-comunista argentina); l’appoggio del governo democratico allora in carica alla repressione dei sovversivi da parte dei militari; il sostegno all’iniziativa golpista dal governo degli Stati Uniti e da altre potenze occidentali interessate ad eliminare il rischio dell’espansione del comunismo nella regione, ecc.

Dal discorso pubblico del governo attuale, quindi, sembra derivare una versione della storia estremamente semplificata che oggi ci consentirebbe di individuare piuttosto facilmente due poli nella scena politica argentina: da una parte, un settore tendenzialmente autoritario, anti-democratico, e contrario agli interessi nazionali e popolari, composto dai militari, dagli intellettuali, dai gruppi economici, da quelli che, in sintesi, hanno beneficiato del regime e del modello economico ritenuto criminale, come dai partiti politici almeno tendenzialmente di centro-destra e favorevoli a una politica economica di ispirazione neoliberale; e dall’altra parte, un gruppo popolare, legittimo, democratico, rappresentato in primo luogo dal governo in carica.

A questa semplificazione della storia argentina sembra contribuire anche la tendenza a considerare il processo penale come strumento imprescindibile di consolidazione della memoria. Come abbiamo visto, la Corte Suprema argentina, conformemente allo stato attuale del diritto internazionale, sostiene che ogni amnistia è orientata all’oblio, lasciando così intendere che nell’assenza di processi penali vi è poco o nessun spazio per la memoria. Orbene, se la memoria del regime dittatoriale sarà quella fondata unicamente o principalmente sulle sentenze dei tribunali, allora difficilmente le numerose e complesse cause che avrebbero dato luogo a tale regime faranno parte della memoria collettiva degli argentini. Infatti, da una parte, i 57 membri delle organizzazioni di tipo terroristico che agirono in Argentina prima e durante il regime militare, accusati di crimini gravissimi ma che beneficiarono anche essi dei decreti di indulto dell’ex presidente Menem, non saranno giudicati insieme ai militari, in quanto i loro delitti, diversamente da quelli attribuiti a questi ultimi, sono prescrivibili secondo la giustizia argentina (3). D’altra parte, sappiamo che il diritto penale non ha mai aspirato a comprendere le origini della criminalità (4), e sarebbe comunque inammissibile chiedere al giudice penale di indagare su tutti i fattori interni e internazionali (politici, giuridici, economici, culturali, ecc.) che hanno permesso l’istituzione e la vigenza durante più di sette anni di un regime dittatoriale in una società democratica e civile, generando il contesto necessario per la commissione dei crimini più detestabili da parte degli stessi agenti statali.

Le conseguenze di questa tendenza, a nostro avviso, possono essere gravissime. Sembra infatti che la “sproporzione fra le dimensioni del crimine e i limiti della giustizia di diritto comune conduce, invero, a fare dell’imputato l’incarnazione di un regime” (5), semplificando in un modo estremamente riduttivo situazioni che, come abbiamo detto, hanno in generale radici politiche, sociali, giuridiche, economiche molto complesse, oltre a essere favorite dal comportamento, anche se non penalmente rilevante, di amplissimi settori della società. Ridurre quindi la visione della storia in questi termini, escludendo l’analisi dettagliata di tali circostanze e la responsabilità, seppur diversa da quella penale, di numerosi settori sociali nell’istituzione e il mantenimento del regime, condurrebbe inevitabilmente a considerare i responsabili del regime stesso come una banda isolata di criminali, come i nemici della società stessa. E quindi non resterebbe che riconoscere la necessità di distinguere tra questi individui, i quali dovrebbero essere considerati più o meno degenerati, e tutti gli altri, ovvero gli individui “normali” o “decenti”, con la conseguente esclusione dei primi.

In conclusione, se il riavvio della persecuzione penale nei confronti dei responsabili dei crimini della dittatura, nonostante i dubbi sollevati sulla legittimità giuridica di tale decisione, è conforme al diritto e ai principi fondamentali ai quali esso deve ispirarsi in uno Stato democratico, allora l’insistenza del governo sul loro giudizio e castigo ci sembra incontestabile. Il riconoscimento ufficiale della sofferenza delle vittime del regime, della loro verità tante volte negata in passato, pare anche essenziale per la consolidazione dei valori della legalità e la democrazia. Ma ci sembra anche che il governo nazionale potrebbe confermarsi un esemplare sostenitore dei valori democratici se proponesse un dibattito sulla storia nazionale, non nei termini di un contraddittorio di tipo giudiziale, riducendo i ruoli dei protagonisti a quelli di giudici, vittime e colpevoli, ma nel quadro di un contesto meno caratterizzato dalla presenza di sentimenti e sensibilità soggettive, più funzionale a un’analisi storica distaccata, e più inclusivo e permeabile alle verità che provengono dai settori della società che non condividono i suoi giudizi sul passato e su quello che è buono per il popolo e gli interessi nazionali. Si tratterebbe, in sintesi, di proporre una ricostruzione della storia finalizzata non a giustificare l’istituzione di un regime anti-democratico e la violazione sistematica dei diritti umani, ma a comprendere i numerosi e complessissimi fattori che hanno dato luogo a tale regime. Crediamo che questo metodo di ricostruzione pubblica della storia non solo può risultare più funzionale a prevenire nel futuro le violazioni massive ai diritti fondamentali, ma allontanerebbe anche il pericolo che la persecuzione e la punizione dei responsabili dei crimini del regime possano essere strumentalizzate per criminalizzare l’avversario politico.

Fonti di riferimento

(1) Cfr. Piqué M., “No han sufrido castigo alguno”, Clarín, 25-03-06 (www.clarin.com.ar).
(2) Cfr. “La justicia, cerca del ideólogo de la dictadura”, editoriale, Página 12, 05-09-06 (www.pagina12.com.ar).
(3) Cfr. “Es imperioso decir basta”, editoriale, La Nación, 07-09-06 (www.lanacion.com.ar).
(4) Cfr. Osiel M.J., “Why Prosecute? Critics of Punishment for Mass Atrocity”, in Human Rights Quarterly, n. 22, 2000, p. 118 ss., spec. pp. 144-147.
(5) Cfr. Garapon A., Des Crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner. Pour une justice internationale, Paris 2002, trad. it., Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, il Mulino, Bologna 2004, p. 234.