7/07/2006

La guerra del papel


Katia Poneti

Doctora en "Teoria e Storia del diritto" 'Università di Firenze. Miembro de la asociacion L'altro diritto.
E-mail: poneti@tsd.unifi.it

Il caso delle cartiere in costruzione a Fray Bentos, sulla sponda uruguayana del Rio Uruguay, ha sollevato la protesta degli abitanti della sponda argentina e di gruppi ambientalisti, come Greenpeace. Le cartiere sono di proprietà di due imprese europee (la spagnola ENCE e la finlandese Botnia), che hanno contrattato con il governo uruguayano la possibilità di costruire gli impianti. Le motivazioni della protesta (sugli sviluppi della quale si trovano notizie sempre aggiornate sul sito http://www.noalapapelera.com.ar/ ) sono costituite principalmente dal timore che le sostanze utilizzate dalle cartiere per sbiancare la carta (cloro) o i loro residui (diossine) provochino un grave inquinamento delle acque del Rio Uruguay, e la contaminazione delle falde acquifere sotterranee. Si prevedono danni sia alla salute delle persone che utilizzano l’acqua e le sue risorse, come la pesca, sia all’ambiente naturale, particolarmente ricco di biodiversità. Gli ossidi di zolfo e di azoto, residui chimici del processo di sbiancamento della carta, hanno la proprietà di provocare le cosiddette piogge acide. Un ulteriore pericolo deriva, ha denunciato Greenpeace, dalla diffusione eccessiva delle piante di eucalipto, utilizzate per produrre il legno da trasformare in carta: le piante di eucalipto sono note per il veloce ritmo di crescita, che le rende un investimento conveniente per l’industria della carta. Tali piante hanno però anche la caratteristica, nota alla letteratura più attenta e critica (si può vedere per esempio Shiva, V., Staying Alive. Women, Ecology and Survival in India, Kali for Women, New Delhi 1988, trad. it. Sopravvivere allo sviluppo, Petrini Editore, Torino 1990, oppure per un caso particolare riguardante un altro paese dell’America del Sud, il Brasile, il rapporto dell’associazione CDM Watch: Forest Fraud, disponibile on-line all’indirizzo http://www.cdmwatch.org/files/forestfraud.pdf , di assorbire ingenti quantità di acqua per sostenere la crescita veloce, e di attecchire e riprodursi con una particolare facilità. Le conseguenze che ne derivano sono il rischio di siccità per i terreni adiacenti e la perdita di biodiversità nella vegetazione.
La questione delle cartiere di Fray Bentos ha assunto i caratteri di una controversia internazionale, che la diplomazia dei due stati non è stata in grado di risolvere. È giunta di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che si è riunita per la prima volta l’8 giungo scorso. L’Argentina denuncia in modo specifico la violazione della norma sull’obbligo reciproco di informazione, contenuta nel Trattato del Rio Uruguay del 1975, che detta le regole alle quali i due paesi dovrebbero attenersi nella gestione delle acque del fiume Uruguay, che segna il loro confine. Il conflitto tra Argentina e Uruguay è configurabile dal punto di vista del diritto internazionale come un caso di inquinamento transfrontaliero: situazione che si verifica quando la fonte inquinante si trova sul territorio di uno stato, mentre gli effetti nocivi si verificano nel territorio di un altro stato. La prima controversia internazionale di questo genere è stato il conflitto tra Canada e Stati Uniti, che si verificò negli anni Venti nel secolo scorso, noto come il caso della fonderia di Trail. La fonderia, posta in territorio canadese ma vicina al confine con gli Stati Uniti, inquinava e danneggiava il territorio di questi ultimi: il caso fu deciso da una corte statunitense, che affermò la competenza del giudice nazionale del paese vittima dell’inquinamento. Successivamente sono state sviluppate norme di diritto internazionale che regolano la competenza giurisdizionale e la responsabilità dello stato inquinatore.
Il ricorso alla giurisdizione internazionale può, nel caso del Rio Uruguay, riuscire a tutelare l’integrità dell’ambiente, poiché può imporre al governo uruguayano di mettere fine al comportamento inquinante. Essa dunque può costituire nel caso specifico un valido mezzo di tutela dell’ambiente. La prospettiva della controversia internazionale mette tuttavia in secondo piano due aspetti importanti della questione: le parti reali della disputa e la reale posta in gioco.
Le due imprese europee, che hanno fatto pressioni sul governo uruguayano perché rispettasse gli accordi presi con loro, senza concedere dilazioni o sospensioni per cercare una mediazione con il governo argentino (solo il 28 giungo scorso, dopo che è stata adita la Corte di Giustizia dell’Aja, è stata annunciata la sospensione dei lavori da parte dell’impresa ENCE, in attesa della pronuncia della Corte), sono le dirette interessate alla controversia. Esse beneficeranno delle risorse naturali dell’Uruguay, fornendo in cambio al paese sudamericano una certa quantità di posti di lavoro: per questo motivo esse esercitano sul governo uruguayano un forte potere. Più in generale la capacità economica permette loro di far valere gli accordi anche contro gli stati sovrani ed è quindi tale da mettere in dubbio l’indipendenza di questi ultimi. L’Unione europea, poi, è interessata a tal punto alla protezione dei suoi interessi economici, che ha dichiarato che certamente le cartiere non produrranno inquinamento (si veda l’articolo di Serena Corsi, Argentina-Uruguay: plana la UE, “Il Manifesto”, 26 aprile 2006). Lo sfruttamento delle risorse ambientali degli Stati del Sud è una pratica usuale per le imprese del Nord che realizzano contemporaneamente il vantaggio di una manodopera a un costo basso e di legislazioni ambientali più leggere e permissive.
L’altro aspetto che viene messo in ombra dal carattere internazionale della controversia è il fatto che usualmente gli Stati del Sud sono complici delle imprese del Nord. Essi sono favorevoli a quelle medesime modalità di sfruttamento delle risorse naturali, che oggi l’Argentina denuncia alla Corte Internazionale dell’Aja. Le cause di ciò risiedono sia nella povertà diffusa nei paesi del Sud, che li rende dei deboli negoziatori nei mercati mondiali, sia nei vantaggi che le élites locali traggono dagli investimenti dei paesi del Nord. In altre parole la circostanza che il caso del Rio Uruguay si configuri come inquinamento transfrontaliero, e quindi che ci sia uno stato vittima (l’Argentina) dell’inquinamento e interessato a farlo valere in sede giurisdizionale, ha avuto la capacità di dare risonanza a un tipo di conflitto che usualmente è soffocato dall’interesse statale: quando simili forme di inquinamento si verificano all’interno degli stati chi si oppone semplicemente non ha voce, poiché non è permessa all’interno delle istituzioni la critica politica del modello di sviluppo dominante.
La questione di fondo è quella, globale, della necessità di riconoscere i limiti dello sviluppo e di abbandonare l’idea che, in nome del lavoro e della libertà economica, è comprensibile il sacrificio dell’ambiente. La storia dello ‘sviluppo’ ha dimostrato che il sacrificio dell’ambiente non ha mai giovato ai più deboli, che hanno subito sulla loro pelle i danni di un lavoro insalubre e di un ambiente malsano. Se l’Europa si pone come un modello da imitare, come l’ordinamento nel quale è garantita la massima protezione ambientale, questo fatto non deve impedire di vedere il compromesso di fondo che sottostà alle scelte legislative europee e che troppo spesso favorisce in maniera netta gli interessi delle imprese: lo sviluppo sostenibile, concetto da sempre ambiguo, si concretizza spesso in provvedimenti legislativi e amministrativi che nel perseguire formalmente la sostenibilità, permettono la messa in opera di impianti inquinanti. Una versione riduttiva dello sviluppo sostenibile è utilizzata dalle istituzioni europee quando occorre (e ciò accade sempre più spesso), ed è costruita attraverso la limitazione del dibattito democratico attorno alla questione del modello di sviluppo. C’è da sperare che la scelta dell’Argentina di rivolgersi alla Corte Internazionale dell’Aja costituisca un primo passo verso una riflessione più generale sul modo di gestire le risorse naturali, di cui i paesi del Sud sono i più ricchi detentori, e che questa azione abbia l’effetto di riaprire il dibattito politico sul modello di sviluppo che i cosiddetti paesi emergenti intendono perseguire.